Il Viaggio della MISSIONE

Ogni volta che ripercorro la strada che da Nairobi ci porta a Marsabit torno con la memoria al mio primo viaggio in Kenya e i pensieri e le sensazioni si fanno vive. Era l’agosto del 2013 e aspettavo quel viaggio da quando ero bambina.

La prima volta che don Donato Panna, parroco del mio paese, partì per il Kenya frequentavo le elementari. Quel viaggio fu per lui il primo di una serie che lo condusse poi a scegliere di diventare, insieme a don Fernando Paladini, missionario Fidei Donum della diocesi di Brindisi – Ostuni nella parrocchia di Laisamis per 13 anni. Il suo carisma e il suo entusiasmo erano tali che tutta la comunità si mobilitò; di quei preparativi ho un’immagine, forse un po’ sbiadita ma indelebilmente impressa nella mente: un trenino di cartoni, alto quasi quanto me, nell’atrio della mia scuola, pieno di quaderni, colori, astucci e matite che avevamo portato come dono per i bambini che avrebbe incontrato. Lì nacque in me il desiderio di partire e, a distanza di quasi 30 anni, ogni volta che prepariamo i bagagli dei nostri viaggi per Marsabit, mi ritornano in mente i vagoni di quel trenino.

Arrivata a Nairobi quello che mi aspettavo era una città metropolitana, con grattacieli e palazzi lussuosi: chi era stato in Kenya prima di me la descriveva così per mettere in evidenza la contraddizione e il contrasto con tutto il resto. Ma l’impatto fu del tutto diverso.

Tre giorni prima della nostra partenza nell’aeroporto Jomo Kenyatta di Nairobi ci fu un esteso incendio che rese inagibile tutta la zona degli arrivi. Così, una volta scesi dall’aereo, fummo accolti all’interno di una tenda di fortuna per sbrigare le pratiche di richiesta del visto e ingresso in territorio kenyota. I segni dell’incendio erano ben visibili, attorno a me vedevo solo nero, distruzione e miseria, altro che lusso!

Usciti dall’aeroporto la situazione che mi si presentò non era molto diversa e iniziai a mettere in discussione tutte le immagini che mi ero costruita a partire dai tanti racconti ascoltati.

Marsabit è collegata con Nairobi da un’unica strada dritta, lunga poco più di 500 km verso il nord del Kenya, quasi al confine con l’Etiopia; per percorrerla, oggi, occorrono circa 8 ore di matatu (autobus in kiswaili), nel 2013 per arrivare a destinazione servivano quasi 12 ore di viaggio in quanto gli ultimi 100 km erano di strada sterrata da percorrere in fuoristrada, tra salti e affossamenti e in una costante nuvola di polvere rossa che penetra ovunque.

Usciti da Nairobi la vegetazione che si presenta, in agosto, è verdeggiante e rigogliosa. Di tanto in tanto, ai lati della strada, si trovano coloratissimi banchi di frutta fresca: manghi, papaye, banane, ananas, frutti della passione… è possibile vedere correre e saltare gazzelle, zebre, struzzi, dik dik, faraone ed elegantissime giraffe. Man mano che si percorrono i chilometri, tra un sorpasso millimetrico e una virata improvvisa, se non si è morti di infarto e si ha ancora il coraggio di guardare fuori, non si può fare a meno di notare come il panorama cambi piuttosto repentinamente. Le palme altissime lasciano spazio ad arbusti spogli, i cespugli fioriti ai rovi, non ci sono prati ma deserto e questo regala la straordinaria visione dei tanti formicai, veri e propri castelli in terra rossa.

Ora capisco perché, col senno di poi, le case della periferia di Nairobi sembrano dei palazzi di lusso!

Più si sale verso nord più la povertà si presenta in punta di piedi, cominciano a comparire le prime capanne, poi i primi villaggi intervallati da mandrie di cammelli e greggi di capre portate al pascolo da bambini scalzi, vestiti di poco o nulla e con in mano un bastone per difendersi dalle insidie del territorio.

Quando questi piccoli pastorelli vedono un veicolo venire verso di loro iniziano a correre lungo la strada chiedendo “magi” (acqua in kiswaili) nella speranza che qualche bottiglietta venga lanciata dall’auto in corsa e possano recuperarla per dissetarsi.

Con il passare degli anni ho colto una certa pedagogia nel lungo viaggio che ci conduce verso la missione di destinazione. Già durante la preparazione dei bagagli siamo chiamati a spogliarci del superfluo: un solo bagaglio a mano per 24 giorni, i bagagli da stiva sono riservati per il trasporto di vestiti, medicinali, doni da lasciare nei villaggi, nelle scuole, nei dispensari (piccoli presidi medici per interventi di prima – e spesso unica – assistenza sanitaria gestiti da infermieri).  La prima notte in Kenya la trascorriamo a Nanyuki, una cittadina a circa 200 km a nord di Nairobi, sede di una base militare inglese e per questo con un’elevata presenza di europei. Quì abbiamo la possibilità di fare la spesa in un supermercato, possiamo acquistare le schede telefoniche e sentire nuovamente i nostri cari e chi ci accompagna con il pensiero costante e la preghiera da casa, fare una doccia calda, lavare i denti con l’acqua del rubinetto, avere un bagno; per i successivi 20 giorni bisognerà fare a meno di tutto questo. Eppure, l’impatto con Nanyuki, per chi lo vive per la prima volta, non è semplice. Anno dopo anno, osservando la reazione dei ragazzi che accompagniamo, mi rendo sempre più conto che, per quanto possiamo raccontare con ricchezza di particolari, foto e video, la realtà va sempre oltre ogni immaginazione, lo scontro con la semplicità ed essenzialità di una vita che non ci è mai realmente appartenuta e che siamo portati a considerare remota e marginale spiazza, scuote e ci ricongiunge con la parte più vera di noi stessi: le maschere cadono, spinte dalla forza dello spirito di adattamento e dell’istinto di sopravvivenza, le domande assillano e il nostro vero io preme per uscire. Tutto questo non sempre è indolore, anzi.

Una volta arrivati in missione il tempo dell’adattamento non è ancora concluso, occorreranno un altro paio di giorni per prendere le misure con le nuove abitudini: l’acqua che va bollita, filtrata emai sprecata, scarafaggi e formiche giganti che sbucano da ogni cassetto/fornello/lavandino, il controllo paranoico delle lenzuola prima di infilarsi nel letto e scoprirle già abitate da qualche ospite indesiderato, le scarpe chiuse nei sacchetti per evitare di camminare insieme a un grillo per tutta la mattina, le reti con cui proteggersi dalle zanzare durante la notte, l’igiene garantita da

salviettine e bottigliette… e tanto altro ancora che, se da un lato può spaventare, dall’altro, vi assicuro, insegna e diverte molto.

Se ora, apparentemente, possiamo ritenere vero il contrario, l’Africa ti accoglie con totalità, amore, grandissimo senso di ospitalità e rispetto. Perché se a noi tutto ciò può sembrare poco o niente, per chi ci accoglie è molto di più di quanto possono permettersi di offrire.

Le giornate sono faticose e lunghe, il caldo e le condizioni di vita mettono alla prova la nostra mente e il nostro fisico, occorre custodirsi a vicenda, essere vigili l’uno verso l’altro e presenti con chi si incontra. La fatica del risveglio all’alba, dopo poche ore di sonno, passa subito in secondo piano non appena ci si accorge di essere immersi in un’armoniosa melodia fatta di cinguettii di uccelli variopinti, canti di gallo e versi di animali che non saprei nominare.

Mentre ci si incammina verso la chiesa, a questi suoni si aggiungono quelli di tamburi, kayamba e canti di studenti che partecipano alla messa prima dell’ingresso a scuola.
Tornati in missione, si prepara la colazione e poi la giornata ha inizio tra visite nelle scuole, incontri nelle manyatte (agglomerati di capanne), condivisioni, animazione e giochi con i bambini.

Prima di partire prepariamo un programma molto dettagliato, niente può essere lasciato all’improvvisazione e al caso, anno dopo anno le verifiche da fare crescono, come la nostra responsabilità e la fiducia accordata, e il tutto si traduce in decine di pagine di promemoria, prospetti, cartelle, suddivisione dei ruoli ma, immancabilmente, i nostri programmi vengono stravolti da subito. Forse è l’insegnamento che ho fatto più mio e per il quale sono più grata: solo se si rimane centrati su sé stessi si ha la certezza di rispettare diligentemente il proprio programma di viaggio, nonostante tutto e tutti. Quando si vive l’andare come una chiamata, al centro di tutto c’è il Signore e la potenza dello Spirito che soffia come Lui vuole. E questa Parola è concreta, incarnata. Dal mio punto di vista, mettere al centro il Signore è mettere al centro una Persona – ogni persona – che entra in relazione, porta con sé domande, proposte, idee, sentimenti, emozioni, bisogni e l’unica strada per rimanere fedeli al nostro Sì è accogliere sempre e abbandonarsi con fiducia. Ho sempre un po’ paura che questo aspetto possa non essere compreso da chi parte per la prima volta, portandolo ad una delusione delle aspettative: adattarsi alle contingenze e a ciò che è possibile e necessario (perché se gli imprevisti sono spesso scatenati dalla limitatezza dei mezzi e delle risorse, a maggior ragione lo sono le soluzioni) richiede tanta pazienza e fiducia nel lasciarsi guidare.

L’esperienza più forte la vivo durante la visita ai villaggi. Da qualche anno sono sempre di più le famiglie che ci vengono incontro, ci cercano per aprirci le porte delle loro capanne e accoglierci nella loro quotidianità, condividendoci con estrema dignità e fiducia tutto ciò che hanno, spesso fatto solo di fame e sofferenza. In quei momenti mi ritornano nella mente le parole che don Donato ci ripeteva ad ogni partenza, era il centro del suo mandato missionario: “scendendo dall’aereo a Nairobi inginocchiatevi e baciate il suolo africano e ricordate le parole di Dio a Mosè vicino al roveto ardente: Mosè togliti i sandali dai piedi perché il suolo che calpesti è terra sacra! E per noi Marsabit è il luogo dove Dio ci attende per farsi conoscere e mandarci”. Queste sue parole erano accompagnate dal costante e accorato invito a sospendere il giudizio nei confronti di chi avremmo incontrato con mentalità, abitudini, tradizioni e valori differenti, ma anche nei confronti di noi stessi. Credo che sia la costante ricerca di un atteggiamento privo di giudizio e pre-giudizio ad aprirci le porte dell’incontro autentico e totale che scende nella parte più fragile e vera dell’altro, fino in fondo.

La povertà non la si comprende realmente finché non la si vive, finché non ti disarma con l’essenzialità dei suoi mezzi e non ti spiazza con la durezza del suo parlarti. È un viaggio nel viaggio, anzi, è IL viaggio nel viaggio, e una volta intrapreso è senza ritorno, ti cambia definitivamente lo sguardo, lo apre alla contemplazione della bellezza più vera e autentica, bellezza fatta di panorami, di sguardi, di sorrisi, di danze, di canti, di strette di mano, di abbracci, di benedizioni, di gioie, di speranze, di generosità, di preghiere, di sofferenze contemplate con dignità. Tutte queste esperienze rappresentano la reale opportunità per me di incontrare l’altro: un altro che è diverso da me ma allo stesso tempo così simile, un altro con cui condividere sogni, speranze, desideri, un altro con cui pregare, un altro che mi arricchisce, un altro che mi interpella, un altro che mi mette di fronte ai miei limiti e alla mia impotenza e, per questo, un altro che mi porta a radicarmi nella fede, un altro che mi è fratello, un altro di cui prendersi cura e da cui farsi curare nelle ferite più profonde dell’anima.

E quella stessa strada, percorsa al contrario lungo la via del ritorno, avrà un sapore molto più amaro dell’andata, un misto di fastidio, rabbia, perdita del bello. Sì, perché quello di cui non ci si rende conto nel viaggio di andata è che quell’andare verso la semplicità di una natura ostile e cruda, quell’andare verso la povertà più estrema e il mistero della vita, quell’andare verso la parte più vera di noi stessi, è il viaggio verso l’Amore, il viaggio verso Dio che ti chiama per rivelarti che non si parte per annunciarLo perché Lui ti precede e si manifesta continuamente, non si parte per salvare nessuno ma si viene salvati dal povero, perché Lui è nel povero.

Teresa

Credits: Dario Puteo

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