Cosa riempie i nostri armadi
Il consumo critico è un argomento di cui abbiamo già trattato e che ci ricorda il potere che abbiamo di cambiare la società in cui viviamo con le nostre scelte quotidiane, già nel momento in cui andiamo a fare la spesa al supermercato o a comprare un nuovo paio di scarpe.
Recentemente si sente spesso parlare di “fast fashion”, un termine che indica l’attuale tendenza a produrre vestiti usa e getta a prezzi molto bassi a scapito della qualità, che induce noi consumatori a comprare compulsivamente portando alla creazione di enormi quantità di rifiuti (vere e proprie discariche a cielo aperto di stracci), oltre che allo sfruttamento delle persone che vi lavorano spesso prive di uno stipendio dignitoso e in condizioni pericolose.
A tal proposito qualche anno fa è stata trasmessa con la collaborazione tra Will Media e Sky Italia una docuserie intitolata “Junk, Armadi pieni”, che denuncia questo fenomeno raccontando l’impatto della moda sulle persone e sull’ambiente. È stata ideata da Matteo Ward che con la società di consulenza Wråd, di cui è co-fondatore, cerca di operare un cambiamento e aumentare il livello di sostenibilità delle aziende nell’industria della moda che a loro si rivolgono. Nel 2024 ha anche pubblicato il libro “Fuorimoda! Storie e proposte per restituire valore a ciò che indossiamo”.
Nelle persone sta nascendo una nuova sensibilità che le porta ad interrogarsi e a comprare meno e meglio, acquistando anche capi vintage (usati) o noleggiando abiti destinati ad occasioni speciali da indossare un’unica volta. Sono diventate molto popolari alcune piattaforme quali Vinted e Depop per la vendita di articoli di seconda mano.
Per risparmiare risulta molto utile avere conoscenze sartoriali di base per dare nuova vita a vecchi abiti o eseguire piccoli lavori di rammendo.
È quanto sostiene nel suo libro “L’arte magica di riordinare l’armadio” Andrea Cheong, giornalista e influencer, ideatrice del metodo “Mindful Monday”.
Questo metodo si articola in cinque passaggi: comincia dall’ispezione del proprio guardaroba per individuare il proprio stile personale; prosegue con la revisione del budget destinato all’acquisto dell’abbigliamento con l’obiettivo di comprare meno e sfruttare al meglio ciò che si ha; delinea il proprio obiettivo di sostenibilità, quel fashion goal che porta a fare scelte migliori per la nostra salute mentale e per l’ambiente, orientandoci nelle situazioni di confusione (nel caso dell’autrice si tratta di non acquistare materiali sintetici quando non è necessario per una questione di economia circolare); insegna a conoscere la composizione dei materiali e infine a comprenderne la qualità.
Si tratta di un metodo molto pratico, ad esempio nell’ispezionare l’armadio chiede di formare quattro pile suddividendole in:
1) capi da conservare ma fuori stagione da riporre in sacchetti sottovuoto trasparenti;
2) capi da donare, regalare agli amici o vendere tenendo presente che un abito che non regaleresti ad un amico non si può rivendere, al massimo lo si potrà riciclare;
3) capi che necessitano di riparazioni o modifiche e
4) riutilizzo creativo (upcycling) o riciclo.
Racconta anche il suo percorso personale caratterizzato da un esaurimento da shopping compulsivo mettendo in guardia sul fatto che lo shopping non debba essere considerato come un intrattenimento perché i vestiti “possono darci un temporaneo senso di autostima ma se non facciamo attenzione rischiamo di usarli come palliativi che non risolvono il vero problema, che risiede dentro di noi”. Elenca le più comuni “cattive abitudini di acquisto” e per combatterle fornisce alcuni suggerimenti, tra cui per risolvere il problema di non avere più spazio per i nostri vestiti consiglia di fermarsi valutando che se non c’è posto per essi, forse il motivo è che non ne abbiamo bisogno, oltre a darsi la regola che per ogni nuovo capo preso ne devi togliere tre. Anche mantenere in buono stato i vestiti è un nostro dovere, di conseguenza lavorare i vestiti che già possediamo operando piccole modifiche o riparazioni è fondamentale per aumentarne la durata.
Per aiutarci nel fare acquisti più sostenibili vi sono alcune app o siti web che si rivolgono ai consumatori, tra cui Good On You che valuta l’impatto di ciascun marchio su tre categorie (persone, pianeta e animali) o la certificazione B-Corp per le aziende (abbreviazione di Benefit Corporation) che richiede attenti e rigorosi controlli su cinque categorie (governance, personale dipendente, clienti, comunità e ambiente).
Molto interessante è il Capitolo 4 sui “Materiali” che inizia sfatando un mito che forse ci sorprenderà: i materiali sostenibili non esistono e cita il fondatore di Patagonia Yvon Chouinard, che nel 2022 ha ceduto la sua azienda, valutata 3 miliardi di dollari e che aveva sempre mostrato un’anima ambientalista, ad un’associazione non profit per investire tutti i profitti nella tutela del pianeta.
L’unica soluzione rimane acquistare di meno e dare priorità alle fibre naturali, che sono circolari. Per quanto riguarda, invece, le fibre sintetiche esistono comunque alcune modalità per limitare la dispersione di microplastiche: inserire appositi filtri nella lavatrice, anche riempirla limita l’attrito che aumenta il rilascio delle stesse, lavare a mano i vestiti o limitarsi a rimuoverne le macchie quando possibile sono altre alternative.
Per questo motivo la giornalista sottolinea più volte il fatto che “la moda sostenibile è «meno peggio» di quella mainstream”: produrre qualcosa di nuovo, infatti, non è mai veramente sostenibile.
Per orientarci negli acquisti si (e ci) pone queste domande:
“Piuttosto che pensare a quali siano i marchi migliori, ha molto più senso analizzare ogni potenziale acquisto per determinare se sia sostenibile. La sostenibilità di un acquisto dipende da diversi fattori.
È ben fatto, o comunque raggiunge uno standard adeguato al suo prezzo?
È un capo che ti servirà o che vorrai anche dopo un’ispezione del tuo guardaroba?
Contiene materiali sintetici laddove non sarebbero necessari (la maggioranza dei capi per tutti i giorni non necessita di plastica)?
È coerente con il tuo stile di vita?
Risulta sostenibile dal punto di vista economico?”
Lo scopo del suo metodo è quello di trasformare ciascun consumatore in un agente di cambiamento e questo è anche il motivo che ci ha spinti a parlare ancora di questo tema.
Non vogliamo demonizzare il mondo della moda o le passioni nei confronti di abiti, accessori o gioielli, al contrario rendere tutti noi più consapevoli.
Negli ultimi anni si è diffusa l’analisi e lo studio dei colori chiamata armocromia, di cui è interessante considerare un aspetto: conoscere i colori e le tonalità che ci donano maggiormente ci rendono anche più consapevoli e selettivi quando facciamo shopping e meno influenzabili dalle mode del momento. Se il Mocha Mousse, un marrone caldo colore Pantone 2025, non mi dona perché ad esempio ho i colori freddi della stagione inverno non andrò ad acquistare un capo di questo colore seppur in voga. Al contrario se sono un autunno, magari lo acquisterò facendo però attenzione a scegliere qualcosa che sia ben fatto e di qualità. Allo stesso modo indipendentemente dal trend del momento conserverò più a lungo un capo perché so che mi valorizza. Inoltre creando la mia personale capsule wardrobe (un guardaroba di base formato da un numero ristretto di capi combinabili tra di loro) non avrò la necessità di acquistare molto ma saranno sufficienti pochi capi di tendenza per rendere il mio look più attuale se mi piace indossare qualcosa che sia comunque alla moda.
Ci piace sottolineare questi aspetti anche perché siamo davvero orgogliosi di avere nel nostro direttivo una eccellente sarta, Martina Segatto (vi invitiamo a cercare i suoi canali social: dAMARTi – Sartoria a colori e damarti_martinasegatto), di cui vi racconteremo la storia in un prossimo articolo.
State connessi!
La Redazione